Ricorso  della  Regione  Liguria, in persona del presidente della
giunta  regionale  pro  tempore,  autorizzato con deliberazione della
giunta  regionale  n. 333 del 7 aprile 2006 (doc. 1), rappresentata e
difesa,  come  da  procura  speciale  a  rogito  del  notaio dott.ssa
Margherita Poli di Genova, rep. n. 13718 del 13 aprile 2006 (doc. 2),
dal  prof. avv. Giandomenico Falcon del foro di Padova, con domicilio
eletto  presso  l'avv.  Luigi  Manzi  del  foro di Roma, in Roma, via
Confalonieri, n. 5;

    Contro   il   Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione    di   illegittimita'   costituzionale   della   legge
21 febbraio 2006, n. 49, conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge  30 dicembre  2005,  n. 272, recante misure urgenti per
garantire  la  sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi
invernali,     nonche'    la    funzionalita'    dell'amministrazione
dell'interno.    Disposizioni    per    favorire   il   recupero   di
tossicodipendenti recidivi, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 48
del  27 febbraio 2006 - Supplemento ordinario - n. 45, nella parte in
cui inserisce nel testo del decreto-legge i seguenti articoli:
        art. 4-quinquiesdecies;
        art. 4-vices ter, comma 28;
per  violazione  degli  articoli  117,  commi  3  e 4, 118, 119 della
Costituzione  e  del principio di leale collaborazione tra lo Stato e
le regioni.

                              F a t t o

    La  Regione Liguria e' dotata di potesta' legislativa concorrente
nella  materia  della «tutela della salute» e di potesta' legislativa
piena  nella  materia  delle  politiche sociali. Con il decreto-legge
30 dicembre  2005,  n. 272  sono  state  adottate «misure urgenti per
garantire  la  sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi
invernali,     nonche'    la    funzionalita'    dell'amministrazione
dell'interno»,  e sono state anche dettate «disposizioni per favorire
il  recupero  di  tossicodipendenti  recidivi».  Della  materia della
tossicodipendenza,  dunque,  il  decreto-legge  n. 272  del  2005  si
occupava  in un solo articolo, e precisamente all'art. 4, concernente
esecuzione delle pene detentive per tossicodipendenti in programmi di
recupero.
    E'  poi  accaduto che, nel corso del procedimento di conversione,
siano  state  inserite  nel decreto-legge numerose disposizioni nella
stessa  materia:  addirittura,  sono  stati  aggiunti 22 articoli (da
4-bis  a  4-vicies ter), la grande maggioranza dei quali modificano o
sostituiscono   disposizioni   del   decreto   del  Presidente  della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, testo unico delle leggi in materia
di  disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
    In  questo  modo,  si e' operata una vera e propria riforma della
materia  della tossicodipendenza, utilizzando a tal fine la sede, del
tutto  impropria, del procedimento di conversione di un decreto-legge
che   aveva  altro  oggetto.  Lo  stravolgimento  del  contenuto  del
decreto-legge  risulta  anche  per tabulas, dato che l'ultimo periodo
dell'allegato  alla  legge  di  conversione  modifica  il  titolo del
decreto-legge,  aggiungendo  le  parole  «e  modifiche al testo unico
delle  leggi  in  materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope,  prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza,  di cui al decreto del Presidente della Repubblica
9 ottobre 1990. n. 309».
    Tale  distorsione  della procedura di conversione configura, come
si  vedra',  un autonomo vizio di costituzionalita', che in ogni modo
la  ricorrente  regione  ha  interesse  a  fare  valere  soltanto  in
relazione  alle  disposizioni  qui'  impugnate,  le  quali  risultano
illegittime  e  lesive delle attribuzioni regionali anche per il loro
intrinseco contenuto.
    Esse vengono, pertanto, impugnate per le seguenti ragioni di

                            D i r i t t o

    1)  Illegittimita' costituzionale dell'art. 4-quinquiesdecies, in
relazione all'art. 116, comma 1, prima parte, d.P.R.n. 309/1990.
    L'art. 4-quinquiesdecies,  decreto-legge  n. 272/2005, introdotto
dalla   legge   n. 49/2006,   sostituisce   l'art. 116   del   d.P.R.
n. 309/1990.  Il  nuovo  art. 116  e'  intitolato  Livelli essenziali
relativi  alla  liberta'  di  scelta  dell'utente  e ai requisiti per
l'autorizzazione delle strutture private.
    Il  comma  1  stabilisce  che  «le  regioni...  assicurano, quale
livello  essenziale delle prestazioni ai sensi dell'art. 117, secondo
comma,  lettera  m) della Costituzione, la liberta' di scelta di ogni
singolo  utente relativamente alla prevenzione, cura e riabilitazione
delle tossicodipendenze».
    La norma e' ad avviso della ricorrente regione costituzionalmente
illegittima sotto distinti profili.
    In  primo luogo, appare evidente che la liberta' di scelta non e'
un   livello  essenziale  delle  prestazioni.  Codesta  ecc.ma  Corte
costituzionale  ha  ormai precisato piu' volte il concetto di livelli
essenziali delle prestazioni, in modo da individuare - e delimitare -
gli  esatti  confini  di tale competenza esclusiva statale. Cosi', la
sent.  n. 383/2005  ha  stabilito  che «tale titolo di legittimazione
puo'  essere  invocato  solo  "in  relazione a specifiche prestazioni
delle quali la normativa nazionale definisca il livello essenziale di
erogazione",  mentre esso non e' utilizzabile "al fine di individuare
il  fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato,
di interi settori materiali" (cfr., da ultimo, la sentenza n. 985 del
2005)»;  e  la sentenza n. 271/2005 ha negato che si potesse invocare
l'art. 117,  secondo  comma,  lett.  m) in quanto la legislazione sui
dati  personali non concerne prestazioni, bensi' la stessa disciplina
di  una  serie  di  diritti  personali  attribuiti  ad  ogni  singolo
interessato».
    Ora,  la norma che prevede «la liberta' di scelta di ogni singolo
utente  relativamente  alla  prevenzione, cura e riabilitazione delle
tossicodipendenze»  non definisce il livello essenziale di erogazione
di  alcuna  specifica  prestazione,  ma  stabilisce  il diritto degli
utenti  di  poter scegliere da chi ricevere una serie di prestazioni.
Oggetto  e  scopo  della  disposizione non e' di garantire un livello
essenziale   di   una   certa   prestazione,  a  tutela  del  diritto
fondamentale  della salute, ma quello di parificare strutture private
e strutture pubbliche, nel quadro di un indirizzo politico perseguito
a  livello  statale  gia' da alcuni anni (si veda, ad es., il decreto
ministeriale  14 giugno  2002  sui  Sert,  annullato  dalla  sentenza
n. 88/2003 di codesta Corte).
    A  questa  stregua,  il  nuovo  art. 116, comma 1, primo periodo,
disciplina un diritto che attiene ad un gruppo di prestazioni, ma non
definisce affatto il livello essenziale di queste prestazioni. Se non
ci fossero altre norme che regolano davvero e specificamente le varie
prestazioni    di    prevenzione,   cura   e   riabilitazione   delle
tossicodipendenze, la semplice liberta' di scelta dell'utente non gli
garantirebbe certo di avere prestazioni idonee.
    Dunque,  la  norma  impugnata  risulta  gia' illegittima e lesiva
delle  competenze  legislative ed amministrative regionali in materia
di  tutela  della salute e in materia di politiche sociali, in quanto
essa  intende  porre  un  vincolo nel settore della tossicodipendenza
sulla  base  di un titolo di competenza statale che, invece, non puo'
essere invocato in relazione al contenuto della norma.
    In  secondo luogo, la regola della libera scelta, ove concepita -
come  la  norma  impugnata appare concepirla - come espressione di un
principio  assoluto,  risulta costituzionalmente illegittima anche se
considerata  in  relazione  allo  specifico  contenuto dispositivo, a
prescindere dal titolo di legittimazione indicato.
    Infatti,  codesta  Corte  costituzionale  ha gia' precisato nella
sentenza  n. 200  del  2005  (nella quale ha dichiarato infondata una
questione  di  costituzionalita' di una legge regionale sollevata per
violazione   dei   principi   fondamentali   statali  in  materia  di
accreditamento  e  di  libera  scelta  da  parte dell'assistito della
struttura   sanitaria   alla   quale  richiedere  l'erogazione  delle
prestazioni)  che,  «tenendo  conto  dell'evoluzione della disciplina
concernente il sistema di erogazione e retribuzione delle prestazioni
specialistiche...,  il  principio di libera scelta non appare affatto
assoluto,  dovendo  invece  essere  contemperato con altri interessi,
costituzionalmente   tutelati,  puntualmente  indicati  da  norme  di
principio della legislazione statale».
    In  tale  occasione  codesta  Corte  costituzionale  ha, appunto,
ricordato varie leggi statali, che hanno posto condizioni all'accesso
alle  strutture  private  convenzionate  con  il  servizio  sanitario
nazionale,  ed  ha concluso che «appare... evidente come l'evoluzione
della legislazione sanitaria fino a circa la meta' degli anni Novanta
-  per  non  dire  di quella successiva che peraltro non rileva nella
questione  di  costituzionalita'  in esame - abbia messo in luce che,
subito  dopo  l'enunciazione  del  principio  della  parificazione  e
concorrenzialita' tra strutture pubbliche e strutture private, con la
conseguente facolta' di libera scelta da parte dell'assistito, si sia
progressivamente  imposto  nella  legislazione sanitaria il principio
della  programmazione, allo scopo di realizzare un contenimento della
spesa  pubblica  ed  una razionalizzazione del sistema sanitario». In
questo modo - continua sempre la citata sentenza - si e' temperato il
predetto  regime concorrenziale attraverso i poteri di programmazione
propri  delle regioni e la stipula di appositi "accordi contrattuali"
tra  le  USL competenti e le strutture interessate per la definizione
di  obiettivi,  volume  massimo  e  corrispettivo  delle  prestazioni
erogabili  (cfr. art. 8-quinquies del d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229)»
(punto 2 del Diritto).
    Del  resto, gia' nella sent. n. 416/1995 la Corte aveva stabilito
che  «la liberta' di scegliere, da parte dell'assistito, chi chiamare
a  fornire le prestazioni sanitarie non comporta affatto una liberta'
sull'an e sull'esigenza delle prestazioni, in quanto resta confermato
il principio fondamentale che l'erogazione delle prestazioni soggette
a  scelte dell'assistito e' subordinata a formale prescrizione a cura
del servizio sanitario nazionale».
    Il   contemperamento   tra   l'interesse  alla  libera  scelta  e
l'interesse  organizzativo  e  finanziario del servizio pubblico deve
ritenersi   costituzionalmente  imposto,  sia  con  riferimento  alla
potesta'  legislativa  di cui all'art. 117, commi terzo e quarto, sia
con  riferimento all'autonomia finanziaria di cui all'art. 119, comma
primo.
    Le  norme  impugnate pongono su un binario parallelo le strutture
pubbliche   e   quelle   private,   in  relazione  a  tutte  le  fasi
dell'attivita'  sanitaria,  in quanto alle strutture private (persino
se  solo  autorizzate,  e  non  accreditate)  vengono  affidate anche
funzioni  di  diagnosi  e  individuazione  della  terapia  (v.  nuovo
art. 116,  comma 2, in particolare la lett. d), ed il nuovo art. 113,
d.P.R.,   n. 309/1990,   introdotto   dall'art. 4-quaterdecies   d.l.
n. 272/2005),  funzioni che spetta invece alle regioni di decidere se
mantenere  in  capo  alla sola struttura pubblica, quale fondamentale
responsabile delle decisioni circa l'organizzazione del servizio.
    Dunque,   la   legge  statale  non  puo'  imporre  come  «livello
essenziale delle prestazioni» un diritto che, in realta', deve essere
sottoposto  a  condizioni  per  contemperarlo  con altri interessi di
livello   costituzionale  (come  risulta  dalla  stessa  legislazione
statale  e dalla giurisprudenza costituzionale). L'imposizione in via
assoluta   della   liberta'  di  scelta  degli  utenti  lederebbe  le
competenze  legislative ed amministrative della regione in materia di
tutela della salute e politiche sociali, dato che la regione vedrebbe
irragionevolmente   compressa  la  propria  autonomia  organizzativa,
programmatoria e finanziaria.
    Si  puo'  qui  ricordare  che  gia'  in base all'art. 2, comma 2,
d.lgs.   n. 502/1992   spettano   «in  particolare  alle  regioni  la
determinazione  dei  principi sull'organizzazione dei servizi», e che
poi  codesta  Corte  «ha  affermato  che  la  competenza  legislativa
concorrente  concernente  la  "tutela  della salute" (art. 117, terzo
comma,  della  Costituzione)  e'  "assai  piu'  ampia"  rispetto alla
precedente relativa all'"assistenza ospedaliera" (sentenza n. 270 del
2005)  ed  esprime  "l'intento  di  una piu' netta distinzione fra la
competenza  regionale  a legiferare in queste materie e la competenza
statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della
disciplina"  (sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 134/2006, punto
8 del Diritto).
    Inoltre,  il principio di liberta' di scelta - ove imposto in via
assoluta  -  aumenterebbe notevolmente le spese a carico del bilancio
regionale  in  uno  specifico  settore,  con  conseguente  violazione
dell'art. 119 Cost.
    E' vero che l'art. 4-sexiesdecies, decreto-legge n. 272/2005, che
sostituisce    l'art. 117   d.P.R.,   n. 309/1990,   stabilisce   che
«l'esercizio   delle  attivita'  di  prevenzione,  cura,  recupero  e
riabilitazione  dei  soggetti  dipendenti  da sostanze stupefacenti e
psicotrope,  con  oneri  a carico del servizio sanitario nazionale e'
subordinato   alla   stipula   degli   accordi  contrattuali  di  cui
all'art. 8-quinquies»,   d.lgs.  n. 502/1992,  ribadendosi  cosi'  il
principio  generale  posto dall'art. 8-bis, d.lgs. n. 502/1992; ma la
disposizione    impugnata    contrasta   con   il   principio   della
programmazione di cui alla sent. n. 200/2005, sancendo - appunto - il
principio della liberta' di scelta.
    Per  rispettare  tale  principio, la regione sarebbe costretta ad
aumentare il numero dei convenzionamenti ex art. 8-quinquies», d.lgs.
n. 502/1992,  oppure a non porre tetti massimi di spesa negli accordi
stipulati  ai sensi della medesima disposizione, con notevole aumento
di  spesa:  di qui la violazione dell'autonomia finanziaria regionale
e,  quindi,  dell'art. 119  Cost.  (aggravata  dal fatto che la legge
n. 49/2006   non   si   preoccupa   minimamente  di  fornire  risorse
corrispondenti).
    L'irragionevolezza  e  la lesivita' della norma impugnata risulta
chiaramente  nel  confronto  con  le  norme  statali  generali  sulla
materia: sia dalle disposizioni citate nella sentenza n. 200/2005 sia
dall'art. 8-quinquies,  comma  2,  d.lgs. n. 502/1992 risulta che gli
accordi  tra  regioni  e  USL e strutture private devono prevedere il
numero   massimo   di   prestazioni  erogabili  ed  il  corrispettivo
preventivato, per evidenti ragioni di razionalizzazione organizzativa
e  contenimento  di  spesa. La norma impugnata, sancendo il principio
della liberta' di scelta, deroga alle norme di cui sopra.
    Pur  se il contrasto con una norma legislativa non rappresenta di
per  se'  un  vizio  di legittimita' costituzionale, esso concorre ad
evidenziare  la  complessiva  illegittimita'  della  norma impugnata,
quando  le  norme  legislative  sono  -  come  nel caso di specie (v.
sentenza  n. 200/2005)  -  attuative di principi costituzionali, come
sopra esposto.
    L'equiparazione   tra  strutture  private  e  pubbliche,  cui  e'
orientata  la  disciplina  qui  impugnata,  risulta  anche  dal nuovo
art. 116,  comma  7,  in  base  al  quale  «fino  al  rilascio  delle
autorizzazioni  ai  sensi  del  presente  articolo  sono  autorizzati
all'attivita'  gli enti iscritti negli albi regionali e provinciali»:
infatti,  tali  enti  sono  attualmente del tutto inidonei a svolgere
attivita'  diagnostica  e prognostica. In questo modo, oltre a ledere
il  diritto  alla  salute,  dato  che  viene  data la possibilita' di
incidere  su  essa  a  soggetti  la cui professionalita' non e' stata
adeguatamente  verificata,  il comma 7 lede ulteriormente l'autonomia
legislativa   ed   amministrativa   della   regione   in  materia  di
organizzazione   e   programmazione   dell'attivita'  socio-sanitaria
relativa ai tossicodipendenti.
    In  effetti,  l'equiparazione si traduce nell'affidamento ad enti
privati,  necessariamente privi di corrispondenti responsabilita', di
decisioni che producono conseguenze sul servizio pubblico.
    Se  il  legislatore  pone  vincoli organizzativi alle regioni con
norme  illegittime,  in  quanto irragionevoli, la sfera di competenza
regionale  e'  chiaramente  lesa,  in  quanto la regione risulterebbe
tenuta   ad   attuare  le  norme  statali  adottando  norme  ed  atti
amministrativi affetti da conseguente illegittimita', e per giunta si
troverebbe  esposta  al  rischio  della contestazione di tali atti in
ragione  della loro illegittimita'. In altre parole, le norme statali
che  vincolano  l'azione  regionale, se illegittime, risultano lesive
delle  competenze  regionali  perche'  rappresentano  un  illegittimo
quadro   dell'azione   regionale:   il  che  costituisce  fattore  di
instabilita'   degli   atti   regionali  attuativi,  con  conseguente
violazione anche del principio di certezza del diritto.
    2)  Illegittimita' costituzionale dell'art. 4-quinquiesdecies, in
relazione all'art. 116, comma 2, d.P.R.n. 309/1990.
    Il  nuovo  art. 116,  comma  2,  d.P.R.,  n. 309/1990, in tema di
autorizzazione delle strutture private, dispone come segue:
        «L'autorizzazione   alla  specifica  attivita'  prescelta  e'
rilasciata   in   presenza   dei   seguenti   requisiti  minimi,  che
rappresentano  livelli  essenziali  ai  sensi  dell'art. 117, secondo
comma, lettera m), della Costituzione:
          a)  personalita'  giuridica di diritto pubblico o privato o
natura  di  associazione  riconosciuta o riconoscibile ai sensi degli
articoli 12 e seguenti del codice civile;
          b) disponibilita' di locali e attrezzature adeguate al tipo
di attivita' prescelta;
          c) personale dotato di comprovata esperienza nel settore di
attivita' prescelto;
          d)  presenza di un' equipe multidisciplinare composta dalle
figure  professionali  del medico con specializzazioni attinenti alle
patologie  correlate  alla  tossicodipendenza  o del medico formato e
perfezionato  in  materia  di tossicodipendenza, dello psichiatra e/o
dello   psicologo   abilitato   all'esercizio  della  psicoterapia  e
dell'infermiere  professionale,  qualora  l'attivita'  prescelta  sia
quella di diagnosi della tossicodipendenza;
          e)    presenza   numericamente   adeguata   di   educatori,
professionali  e  di comunita', supportata dalle figure professionali
del medico, dello psicologo e delle ulteriori figure richieste per la
specifica   attivita'   prescelta   di   cura  e  riabilitazione  dei
tossicodipendenti».
    Tale    disposizione,   dunque,   fissa   determinati   requisiti
strutturali,   tecnologici   ed   organizzativi  per  l'esercizio  di
attivita'   sanitaria   e   socio-sanitaria   a  favore  di  soggetti
tossicodipendenti,  e  qualifica quei requisiti «livelli essenziali»;
ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost. Il legislatore
statale cerca di fondare le proprie norme con un titolo di competenza
esclusiva,   ritenendole  evidentemente  complessivamente  prive  del
carattere  di  principi  fondamentali.  Ma  il  titolo  di competenza
esclusiva  risulta  ad  avviso  della ricorrente regione invocato del
tutto  impropriamente ed illegittimamente. Infatti, la questione se i
requisiti   delle   strutture  possano  essere  considerati  «livelli
essenziali»  ex  art. 117,  secondo  comma,  lett.  m), e' gia' stata
risolta   in   senso   negativo   da   codesta   Corte.   Di   fronte
all'impugnazione  di  una  legge  regionale che regolava gli standard
strutturali e qualitativi degli asili nido, impugnata - fra l'altro -
in  riferimento  all'art. 117,  secondo  comma, lett. m), la sentenza
n. 120/2005  ha  precisato che, poiche' gli asili nido ricadono nella
competenza  legislativa  concorrente, «risulta impossibile "negare la
competenza  legislativa  delle singole regioni, in particolare per la
individuazione  di  criteri  per la gestione e l'organizzazione degli
asili,  seppure  nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dal
legislatore  statale" (sentenza n. 370 del 2003)». Inoltre, la stessa
sentenza  ha  espressamente  affermato  che «la tesi che gli standard
strutturali   e   qualitativi   di   cui   alla  norma  impugnata  si
identificherebbero  con i livelli essenziali delle prestazioni... non
puo'  essere  condivisa  in  quanto  la norma censurata non determina
alcun  livello  di  prestazione, limitandosi ad incidere sull'assetto
organizzativo  e  gestorio  degli  asili  nido che, come si e' detto,
risulta  demandato  alla potesta' legislativa delle regioni» (punto 2
del Diritto).
    Poiche'  le  attivita'  sanitarie  e  socio-sanitarie a favore di
soggetti   tossicodipendenti   rientrano  in  materie  di  competenza
regionale  concorrente  (tutela  della  salute)  o  piena  (politiche
sociali),   le   considerazioni  svolte  nella  sentenza  n. 120/2005
evidenziano  allo  stesso  modo  l'illegittimita' del nuovo art. 116,
comma  2, d.P.R. n. 309/1990. In effetti, se, come gia' ricordato, la
competenza  sui  livelli  essenziali  «puo'  essere invocata solo "in
relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa nazionale
definisca  il  livello  essenziale  di  erogazione", mentre... non e'
utilizzabile  al  fine  di  individuare  il fondamento costituzionale
della  disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali»
(sentenza  n.  383/2005),  pare  chiaro che i requisiti fissati dalla
norma impugnata non rappresentano «livelli essenziali».
    Il  nuovo  art. 116,  comma 2, si occupa delle strutture e non di
specifiche  prestazioni,  tanto  e'  vero  che  certi  requisiti sono
lasciati  indeterminati,  perche'  variano  in  base  alla «attivita'
prescelta».
    Del  resto, se si ammettesse che lo Stato ha competenza esclusiva
in  materia  di  standard  delle  strutture  che  erogano prestazioni
sanitarie,  su  questo  punto  rischierebbe  di  essere vanificata la
competenza  legislativa  regionale:  lo  Stato, invocando l'art. 117,
secondo  comma,  lett.  m), potrebbe comprimere unilateralmente ed in
modo  indefinito  l'autonomia  regionale,  senza  in realta' regolare
specifiche prestazioni.
    Si  noti  che  non potrebbe, invece, essere utilmente invocata, a
difesa  della  norma  impugnata,  la  sentenza n. 134/2006 di codesta
Corte.  In  quel  caso,  infatti,  la legge statale si occupava degli
«standard   qualitativi,  strutturali,  tecnologici,  di  processo  e
possibilmente  di  esito, e quantitativi di cui ai livelli essenziali
di  assistenza»:  essa,  dunque,  riguardava  gli  standard non delle
strutture  ma delle specifiche prestazioni e, in effetti, la Corte ha
fatto  salva  la  norma  solo  in quanto la «disposizione legislativa
individua  gli  standard  in  termini tali da rendere evidente che si
tratta  di  integrazioni  e specificazioni sul versante attuativo dei
LEA esistenti nel settore sanitario».
    Nel  suo  complesso,  dunque, la giurisprudenza costituzionale ha
tenuto fermo il principio secondo il quale l'art. 117, secondo comma,
lett.  m) puo' essere invocato solo quando si definiscono i livelli e
gli  standard  di  specifiche  prestazioni, e non quando si fissano i
requisiti  delle  strutture  che  erogano  prestazioni  attinenti  ai
diritti sociali.
    Di  qui  l'illegittimita'  costituzionale  dei vincoli posti alle
regioni dalla norma sopra citata.
    Per  mero  scrupolo  difensivo,  si  puo' aggiungere che il nuovo
art. 116,  comma  2, non potrebbe essere ritenuto legittimo neppure a
titolo  di  normativa di cornice, dato che esso contiene precisazioni
organizzative  di  carattere dettagliato ed autoapplicativo, comunque
lesive   per   l'autonomia   regionale  (sui  limiti  della  potesta'
legislativa  statale  nelle  materie  concorrenti  v.  le  sentt. nn.
87/2006, 272/2004, 12/2004, 13/2004, 282/2002).
    3) Illegittimita' dell'art. 4-vicies ter, comma 28.
    L'art. 4-vicies ter, comma 28, d.l. n. 272/2005, introdotto dalla
legge  n. 49/2006,  sopprime  la  parola  «ausiliari»  nell'art. 115,
d.P.R.  n. 309/1990.  Esso, dunque, ora stabilisce che, «i comuni, le
comunita'  montane,  i  loro  consorzi  ed  associazioni,  i  servizi
pubblici  per  le tossicodipendenze costituiti dalle unita' sanitarie
locali,  singole  o  associate,  ed  i  centri previsti dall'art. 114
possono  avvalersi  della  collaborazione di gruppi di volontariato o
degli  enti»  -  non  piu' ora «ausiliari» - «di cui all'art. 116 che
svolgono  senza  fine  di  lucro  la  loro attivita' con finalita' di
prevenzione    del    disagio    psico-sociale,   assistenza,   cura,
riabilitazione   e  reinserimento  dei  tossicodipendenti  ovvero  di
associazioni,  di enti di loro emanazione con finalita' di educazione
dei  giovani,  di  sviluppo  socio-culturale  della  personalita', di
formazione professionale e di orientamento al lavoro».
    La  novita'  normativa  costituisce  ulteriore  espressione della
equiparazione  tra  strutture private e pubbliche operata dalla legge
n. 49/2006, gia' censurata nel punto 1.
    Eliminando  la  qualifica di «ausiliari» agli enti privati di cui
all'art. 116,  il  legislatore  rende  palese  il  proprio intento di
attribuire alle strutture private non piu' un ruolo di supporto delle
strutture   pubbliche,   ma   una   posizione  paritaria,  pienamente
concorrenziale con le strutture del SSN.
    Sennonche',  finche'  resta  alla «Repubblica» (art. 32 Cost.) la
responsabilita' della tutela della salute quale «fondamentale diritto
dell'individuo  e  interesse  della  collettivita», la legge non puo'
istituire  una  parita'  assoluta  tra  strutture pubbliche e private
nell'ambito  del  servizio  pubblico,  perche'  cio'  nuocerebbe alla
razionalita'  ed alla economicita' dell'organizzazione pubblica, come
visto in relazione al nuovo art. 116, comma 1, primo periodo. Dunque,
l'art. 4-vicies ter, comma 28, e' illegittimo per le medesime ragioni
illustrate nel punto 1.
    4)  Illegittimita' di tutte le disposizioni impugnate, come sopra
individuate, per violazione del principio di leale collaborazione.
    Come accennato, le disposizioni impugnate sono state inserite nel
decreto-legge  n. 272/2005 nel corso del procedimento di conversione,
in   un   decreto-legge   al   cui   oggetto  le  nuove  norme  erano
sostanzialmente   estranee:  in  questo  modo,  si  e'  stravolto  il
contenuto  del  decreto  e  si  e'  operata  -  in una sede del tutto
impropria  ed  impropriamente  utilizzando le procedure proprie della
legge di conversione - una vera e propria riforma della materia della
tossicodipendenza.
    Operando  in questo modo, inoltre, lo Stato ha omesso di svolgere
le  procedure  collaborative  con le regioni, prescritte dall'art. 2,
d.lgs.  n. 281/1997  per i disegni di legge che riguardano le materie
regionali.  Non  e'  neppure  stata  operata  la  c.d.  consultazione
successiva di cui all'art. 2, comma 5, d.lgs. n. 281/1997 (in base al
quale,  «quando il Presidente del Consiglio dei ministri dichiara che
ragioni  di  urgenza  non  consentono la consultazione preventiva, la
Conferenza  Stato-regioni e' consultata successivamente ed il Governo
tiene  conto  dei  suoi  pareri: a) in sede di esame parlamentare dei
disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge»).
    Tale norma deve essere considerata quale traduzione operativa del
principio  costituzionale  di  leale collaborazione, per cui le norme
impugnate risultano illegittime anche sotto questo profilo.
    Ne'  e'  possibile  sostenere che l'art. 2, comma 5, configuri la
consultazione «successiva» come meramente eventuale. Non solo infatti
la   disposizione   di   legge   non   prevede  una  possibilita'  di
consultazione,   ma  stabilisce  che  «la  Conferenza  e'  consultata
successivamente»,  ponendo chiaramente un dovere di consultazione, ma
la   stessa  riconduzione  di  tale  dovere  al  principio  di  leale
collaborazione ne mostra la natura cogente.
    Pertanto,  ad  avviso  della  ricorrente  regione,  la  legge  di
conversione  adottata  senza  parere  e'  una  legge affetta da vizio
procedimentale,  sindacabile  da  codesta  Corte  in quanto l'art. 2,
comma 5, costituisce traduzione del principio costituzionale di leale
collaborazione nel quadro della procedura di emanazione e conversione
dei decreti-legge.
    Si  consideri  anche  che  il vizio procedimentale qui denunciato
implica un grave disconoscimento della posizione costituzionale delle
regioni:   poiche'   la  riforma  del  d.P.R.  n. 309/1990  e'  stata
realizzata  nell'ambito  di  un  procedimento  di  conversione  di un
decreto-legge,  essa e' avvenuta con una procedura accelerata, in cui
le  numerose modifiche sono state inserite nell'allegato all'articolo
unico della legge di conversione.
    In  questa  situazione,  l'unico modo in cui le regioni avrebbero
potuto  -  se  le  regole  costituzionali  fossero state rispettate -
esprimere  la  propria  posizione  era proprio la consultazione della
Conferenza,  non  a  caso  espressamente  prevista  come obbligatoria
dall'art. 2,  comma  5,  d.lgs.  n. 281/1997.  L'omissione  di questa
consultazione  ha, dunque, completamente «tagliato fuori» le regioni,
che  hanno  solo  potuto  prendere  atto  dell'avvenuta riforma di un
settore in cui hanno potesta' legislativa.
    La  violazione  del  principio  di  leale  collaborazione risulta
particolarmente  grave  proprio  per  l'art. 4-quinquiesdecies, che -
secondo  la  prospettazione della norma impugnata - definisce livelli
essenziali    delle    prestazioni.    Infatti,    come   noto,   per
l'individuazione  dei  LEA  e'  ormai consolidato nell'ordinamento il
principio  dell'intesa (v. l'art. 6 del decreto-legge n. 347/2001, il
d.P.C.m.   29   novembre  2001  e  successivamente  l'art. 54,  legge
n. 289/2002).
    La  necessita'  di un'intesa fra Stato e regioni sui LEA e' stata
sostenuta  dalla  dottrina  prevalente,  in relazione alle materie di
competenza   regionale,   sia   in  virtu'  del  principio  di  leale
collaborazione  sia  al  fine di responsabilizzare le regioni, tenute
poi  ad  assicurare  l'erogazione  delle prestazioni. Essa inoltre e'
necessaria  per impedire che alle regioni siano addossati oneri privi
di copertura.
    Anche  la  giurisprudenza  costituzionale  ha piu' volte chiarito
che,  pur  nelle  materie  di  competenza esclusiva, e' necessario un
coinvolgimento    delle   regioni,   quando   le   funzioni   statali
interferiscono con materie regionali (v. sentt. nn. 308/2003, 31/2005
e 279/2005). Se esiste, come ha attestato codesta Corte, un principio
costituzionale  in base al quale la connessione tra materia statale e
materie  regionali  impone  procedure cooperative, tale principio non
puo'  valere  solo  per  l'esercizio della funzione amministrativa ma
deve  valere  anche  per  la  funzione legislativa: a maggior ragione
quando  la connessione e' assai forte, come nel caso di norme statali
che definiscono (o almeno, come sopra esposto, ritengono di definire)
livelli   essenziali  delle  prestazioni  in  materie  di  competenza
regionale,  cosi' condizionando direttamente l'attivita' legislativa,
amministrativa e finanziaria regionale.
    Codesta  Corte  ha in passato, sia pure in casi diversi da quello
presente,   negato   l'esistenza   di  un  fondamento  costituzionale
all'obbligo    di   procedure   legislative   ispirate   alla   leale
collaborazione  tra  Stato  e  regioni.  Sia  consentito  tuttavia di
osservare  che,  se la ratio del principio di leale collaborazione e'
contemperare  gli  interessi  in  caso  di  interferenze fra funzioni
facenti capo ad enti diversi, e se esso ha, come non e' dubbio, rango
costituzionale,  non  vi  e'  ragione  per  distinguere  tra funzione
legislativa  e funzione amministrativa. Si dovrebbe anzi ritenere che
proprio  in  relazione alla funzione piu' importante risulti maggiore
l'esigenza della leale collaborazione.
    Del   resto,  gia'  la  sentenza  n. 398/1998  ha  annullato  una
disposizione  legislativa  statale  per  mancato coinvolgimento delle
regioni nel procedimento legislativo (punto 12 del Diritto).